13 Mag 2024

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La deportazione dei pugliesi di Crimea

Tra il 1830 e il 1870 giunsero in Russia, nella penisola di Crimea, molti emigranti provenienti dall’Italia, soprattutto dalle località pugliesi di Trani, Bisceglie e Molfetta.

Si trattava di agricoltori, pescatori, artigiani e commercianti, allettati dal miraggio di buoni guadagni, dal clima mite e dal desiderio di sfruttare terre fertili e mari pescosi.
In molti di loro, prevaleva il forte desiderio di fuggire dalla miseria in cui, a quei tempi, versavano molte zone del sud Italia.

I flussi migratori si concentrarono soprattutto nell’antica città portuale di Kerc’, importante snodo commerciale sull’omonimo stretto che separa il Mar Nero dal Mar d’Azov.

Da subito, la comunità pugliese si conquistò il rispetto della popolazione locale, grazie alla laboriosità, creatività e capacità di fare che la caratterizzò.

In breve, essa divenne la più ricca e stimata di tutto il territorio e, pian piano, iniziarono ad arrivare non più solo agricoltori, pescatori e buoni artigiani, ma anche architetti, ingegneri, avvocati, medici, scrittori, musicisti, che si distinsero nelle attività intellettuali e contribuirono grandemente allo sviluppo della città.

Da Kerc’ gli italiani si diffusero anche a Feodosia (l’antica colonia genovese di Caffa), Simferopoli ed in altri porti russi della Crimea.

Alla fine dell’Ottocento i nostri connazionali erano talmente tanti e tanto influente la loro presenza che fu necessario aprire un ufficio consolare a Kerc’ e una chiesa cattolica (detta ancora oggi “la chiesa degli italiani”).
In seguito, all’inizio del Novecento, venne aperta anche una scuola italiana, una biblioteca, un club e una società di beneficenza.

Molte delle famiglie trapiantate in Crimea avevano cognomi tipicamente pugliesi: De Martino, De Cilis, De Fonso, Di Piero, Bruno, Giachetti, Evangelista, Cassanelli, Croce, Carboni, Logoliso, Simone, Scuccimarro, Pergolo, Fabiano, Porcelli.
Esse parlavano tutte il russo, con qualche intercalare di dialetto pugliese.
Erano tutte perfettamente integrate nel tessuto sociale russo.

L’avvento del bolscevismo, la collettivizzazione forzata, le purghe staliniane e, soprattutto, la deportazione etnica totale usata come ritorsione all’entrata in guerra dell’Italia fascista contro l’Unione Sovietica, furono colpi devastanti per gli italiani di Crimea.

Essi, infatti, cominciarono ad essere perseguitati con l’accusa di simpatizzare per il fascismo.

A metà degli anni venti, molti emigrati italiani antifascisti, rifugiati in Unione Sovietica, vennero inviati a Kerc’ per “rieducare” la minoranza italiana: furono loro a decidere la chiusura della chiesa, a sostituire i maestri di scuola con personale politicamente più organico alle direttive del partito, a infiltrarsi nella comunità italiana per coglierne i malumori e riferire alla polizia segreta.

La comunità pugliese, proprio perché tra le più produttive ed intraprendenti, più di altre venne presa di mira e, spesso, i nostri concittadini vennero additati come “kulaki” (i contadini ricchi che, nella Russia di Stalin, divennero oggetto di discriminazione e persecuzione), per le ricchezze onestamente guadagnate, o accusati di essere “nemici del popolo” e repressi per i sospetti che suscitava la loro identità e il diverso senso di appartenenza.

Nel 1942, a causa dell’avanzata della Wehrmacht in Ucraina e in Crimea, le minoranze nazionali presenti sul territorio russo finirono deportate con l’accusa di collaborazionismo.

Il 28 gennaio del 1942 almeno 2.000 italiani vennero rastrellati da tutta la Crimea e tradotti al porto di Kerc’ per un viaggio dal quale ben pochi riuscirono a far ritorno.

Essi ebbero due ore di tempo per fare le valigie e otto chili di bagaglio a testa consentiti. In pieno inverno, furono trasportati in nave fino a Novorossisk, poi in treno attraverso le steppe del Caucaso, poi ancora in nave per attraversare il Mar Caspio e, infine, di nuovo in treno fino al Kazakistan.
Destinazione finale, le regioni di Karaganda e Celiabinsk, dove i deportati furono accolti da temperature fra i 30 e i 40 gradi sotto zero e “ospitati” nel terribile Gulag di Karaganda, dove si calcola siano morti di fame, freddo e stenti oltre mezzo milione di prigionieri.

Tra l’8 e il 10 febbraio un nuovo rastrellamento venne effettuato per deportare coloro che erano riusciti a sfuggire al primo, mentre la terza, ultima e definitiva deportazione venne portata a compimento il 24 giugno del 1944, dopo la riconquista della Crimea da parte dell’Armata Rossa.

In questo caso, gli italiani vennero imbarcati su due navi: una delle due venne centrata da una bomba appena uscita dal porto, l’altra arrivò a destinazione per far proseguire i deportati lungo un viaggio di circa altri due mesi, durante il quale furono decimati dagli attacchi dei cosacchi.

Dopo la guerra, alla morte di Stalin e sotto la presidenza di Chruščёv, gli italiani sopravissuti furono liberi di tornare.
Alcune famiglie si dispersero sul territorio dell’ex Unione Sovietica, negli attuali stati di Kazakistan e Uzbekistan

A Kerc’, che nel periodo di massimo splendore per la nostra comunità, contava circa 3.000 individui, non restarono che circa 150 famiglie.
Molte di esse hanno dovuto ricominciare da zero, celando la loro origine etnica attraverso una russificazione del nome.

I tragici eventi degli anni ’40 avevano ormai instillato in tutti i sopravvissuti alla deportazione il timore di essere riconosciuti come italiani e, ancora nei primi anni del duemila, molti testimoni diretti non acconsentivano a parlare della propria esperienza per paura di eventuali ritorsioni da parte di uno stato che, di fatto, non esisteva più.

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Antonio Verardi
Antonio Verardi
Storico dell’Arte. Ha collaborato con il Museo Pecci di Prato. Ha svolto attività di ricerca per la Facoltà di Lettere e Architettura. E’ docente di letteratura italiana, storia e storia dell’arte. Perito ed esperto per la Camera di Commercio di Bari è iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti dal maggio 2011.

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